In un funerale i dettagli sono sempre importanti. Esiste un momento per il pianto, uno per la riflessione, uno per la compostezza. Gianni ci credeva profondamente. In un senso di enorme dignità… anche in quel momento. Attimi, mezz’ore, due giornate di sofferenza fatta di piombo e lacrime. Quella della notte prima era stata la veglia cui si era costretto, mentre tutti gli dicevano che no, non era il caso, non doveva. “Riposa, non sei stato bene… dormi un po’ almeno, provaci…”. E giù un pugno violentissimo. Uno dei più violenti che avesse mai tirato. Contro il muro. Nel mezzogiorno assolato della Puglia le case antiche, i “palazzi di famiglia” hanno fondamenta scavate nella pietra. E mura portanti spesse un metro. Eppure la finestra di quella camera da letto, rischiarata dai lumini funebri messi a croce attorno al feretro, tremarono. Gianni sentì forte, fortissimo, un calore spandersi dalle nocche al polso. Sentì vibrare la mascella. Serrò le palpebre. La sinistra a stringere il destro. “Cazzo… me lo sono rotto un’altra volta…”. Ma fu un pensiero non condiviso. Gli occhi di chi gli aveva consigliato di dormire si strinsero come due fessure cariche di un risentimento misto alla pietà per tutta quella sofferenza. Quella sofferenza che si era moltiplicata, andando dal cuore alle nocche e rimbalzando nel polso. Un abbraccio, soffocato: “Fai come vuoi, ma basta. Smettila! E’ meglio così, per tutti… prima di tutto per lei… che ora non soffre più!”.
Era sfatto mentre raccoglieva le condoglianze sorseggiando quei visi, quelle parole di circostanza, quelle strette di mano che continuava ostinatamente a ricambiare con presa ferma, incurante di quel dolore che invece lo dilaniava. Forte. Era tutta parte di una liturgia assurda ed incomprensibile. La liturgia del dolore. Era come se, per magia, ogni stretta data da quella mano che la sera prima si era schiantata contro la carta da parati e l’intonaco e le pietre lì sotto, sottraesse dolore a lei, che aveva smesso di soffrire, e lo regalasse a lui. Avrebbe potuto rilassare la mano, lasciarsela stringere, sussurrare un grazie biascicato… guardarsi da fuori, astrarsi da quel momento. Lo avrebbe dovuto a tutti, prima di tutto a se stesso, quel senso di sottrazione dal dolore. Invece no. No e poi no. Doveva viverlo. E viversi in quel momento. Per un senso innato di dignità.
Fu allora che confusamente lei gli apparve di fronte. Visione impossibile. Aveva stampato il volto di Francesca sull’indistinto ovale di una giovane collega di suo zio. Stesso taglio di capelli, stessa fisionomia. “No, non sei tu… non puoi essere tu!”. Si rese conto solo allora del significato di quello stringere la mano così forte. Si rese conto solo allora del perchè, dopo aver sferrato quel pungo ed essere rimasto immobile, seduto, davanti al feretro, tutta la notte precedente, solo all’alba si era ritrovato su un divano che aveva 70, 75 anni, con una coperta di pile serrata tra i denti a piangere senza lacrime, soffocando le urla. Soffocando grida disperate che gli avevano scoppiato i capillari negli occhi, arroventato gli zigomi, raschiato la gola. Facce del genere le aveva viste solo quando pestava allo stadio, dietro il casco e il manganello da playmobil. Sembrava lo avessero sfondato di schiaffi. Non aveva più voce. Per un’ora. Tanto nessuno poteva sentirlo. Che il sonno in un feretro è molto più che profondo. E le orecchie di Francesca erano lontane, troppo lontane.
Si attardò a guardare la donna sulla quale aveva cucito il volto di un’altra, il volto di lei.
“Che cazzo mi torni a fare in mente, tu, oggi?”… e la risposta era tutta nel senso enorme di solitudine, incolmabile, di fronte al feretro che veniva preso a spalla dai becchini.
“Che cazzo mi torni a fare in mente, tu, oggi?”. E la risposta era tutta stretta in una semplice constatazione: il suo era l’unico abbraccio che gli era mancato. Il suo era l’unico profumo che non aveva sentito… e lui lo riconosceva tra mille. Sempre. Perchè non era mai cambiato, in quei mesi estivi in cui s’erano visti, amati, avuti, una volta al giorno. Per un solo giorno. Una volta al mese.
“Che cazzo mi torni a fare in mente, tu, oggi?”… e non smise di ripeterselo, con una stizza ed un veleno acido in gola, mentre il feretro gli sfilava di fronte… ed era il momento di un saluto a mezza bocca, di un cenno, di un bacio lanciato. L’ultimo, prima del saluto ultimo l’indomani, all’inumazione. Invece no… e per questo si odiò, si odiò forte; perchè continuava a ripetersi e ripeterle quella domanda, invece di dire un ciao, di mandare un bacio, uno sguardo, una carezza al legno che sfilava via.
“Che cazzo mi torni a fare in mente, tu, ora?”. E la risposta è che avrebbe voluto scacciare via quella tristezza, quel senso di vuoto raddoppiato. Dall’assenza che ormai si faceva concreta di quel feretro che lo salutava nella navata della chiesa. Dall’assenza di quell’abbraccio, l’unico che avesse davvero desiderato, l’unico che non c’era. E la risposta è che avrebbe voluto scacciare via quel vuoto correndo a casa, con gli occhi pieni di lacrime… a fare l’amore, Gianni. Con lei, Francesca. Per sentirsi al caldo. Per sentirsi al sicuro. Per sentire un abbraccio, il suo, che lo proteggeva… come sempre aveva saput o fare… che lo poteva far sentire vivo.
Non era un gesto dignitoso, non era un gesto decoroso… non era il modo di stare ad un funerale, quello. Ma frugò la tasca della giacca, prese il telefonino, scorse whatsapp e digitò veloce sullo schermo.
“Che cazzo mi vieni a fare in mente tu, oggi, ad un funerale? Come ti permetti? Tu, che dalle mie foto sei uscita prima ancora di entrarci, da sonnambula, da bella addormentata… senza svegliarti nemmeno… e senza darmi l’onore delle armi di una dissolvenza al nero?”.
Sorrise di quella metafora… sorrise amaro. Non riusciva a non usare le metafore. Le amava. E ci credeva. Lui che amava le foto, di lei, ne aveva di splendide. Pochissime ma bellissime. Ed in quelle foto, lei, dormiva sempre. Lui, che amava il montaggio, aveva sempre creduto che fosse crudele lo stacco senza dissolvenza al nero. Crudele e drammatico. Come la morte che ti strappa via a poche ore di distanza da un bacio, dal selfie di giornata, da un sorriso che non arrivava da mesi. Come gli addii minacciati, biascicati sotto torture da questura “a seguito di ripetute ed intimidatorie domande”. Quelli detti per fuggire dagli arrivederci che pesano. Quelli detti senza crederci e portati avanti perchè si pensa facciano soffrire di meno. Quelli di Francesca, poco prima che quel pugno si schiantasse sul muro, di fronte a quel feretro triste.
Estremamente ben piazzato il tag “piangere”…
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Tu dici?
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Dico dico
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E in cosa lo trovi strategico?
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Nel fatto che fa piangere questo articolo e quindi dicendolo sono gli altri che non hanno dato retta a quello che dicevi.
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Che bravo che sei Mortella’.
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Grazie
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Apoteosi del dolore…un bellissimo scritto…
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Grazie zia…
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di niente stellì buonagiornata
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Ciao Dom è proprio scritto bene questo articolo. Ho pianto ma più per la paura che prova il protagonista, piuttosto che per il suo dolore.
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Paura e dolore in certi momenti si fondono così tanto da divenire indistinti!
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Comunque è il solito incipit di un solito racconto che come al solito non so se mai continuerò!
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Però tutto questo “vissuto” che sa di “vivente” a me non fa piangere ma luccicante gli occhi, le lacrime ci hanno provato ad affacciarsi ma poi hanno deciso di restare stupefatto a guardare la bellezza di un “sentire” cosi pieno, intenso…
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Era luccicare non luccicante, maledetto correttore del cell 😦
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Grazie caro
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Cara, eh?! 😉
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Oh sorry… Difficoult days!
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